Stiamo vivendo un periodo complesso, in cui abbiamo la costante sensazione di essere sull’orlo di un baratro. La crisi economica prolungata ha messo in ginocchio interi settori, tra i quali anche il design. Inutile fare finta di nulla: nascono sempre più studi e agenzie di comunicazione, a fronte però di una decrescita del lavoro. Molti ambiti del design, un tempo centrali, oggi sono stati depotenziati. Il branding, ad esempio, viene sempre più messo ai margini.
Per sopravvivere, molte aziende hanno dovuto trasformarsi, proponendo servizi spesso lontani dal mondo del design e della creatività. A farla da capofila, l’errata convinzione che oggi l’unico strumento di comunicazione efficace siano i social. Si dimentica però che questo è solo uno dei tanti mezzi disponibili e che da solo può fare ben poco, soprattutto in una realtà in cui siamo quotidianamente bombardati da contenuti.
Ho visto realtà cambiare ciò che volevano essere ogni 4/6 mesi, inseguendo freneticamente ciò che in quel momento sembrava essere il modello business più conveniente. Un copiare costantemente il prossimo, cercando di replicare un “successo” altrui, senza capire che nel momento stesso in cui diventi il secondo a fare qualcosa, stai già rincorrendo. Alla base c’è un approccio sempre più approssimativo rispetto a ciò che si è realmente in grado di offrire al cliente. Un continuo “sì, lo facciamo” rivolto al miglior offerente, anche senza avere le competenze per farlo.
Ma ho visto anche persone decidere di uscire da questo sistema malato, con coraggio, dando vita a piccole realtà sostenibili alle quali, nel bene o nel male, si deve la speranza dell’esistenza del vero design.
In Italia, i grandi studi sono diventati insostenibili. Lo Stato impone tassazioni altissime sui dipendenti, mentre le entrate si fanno sempre più esigue. Per questo motivo, c’è una continua rotazione di profili junior: ragazzi tra i 23 e i 28 anni alla loro prima esperienza lavorativa, sottopagati, spesso ancora residenti a casa con i genitori. Godono di agevolazioni contributive per i primi 2-3 anni, ma il problema arriva dopo, quando queste detrazioni terminano.
A quel punto, spesso viene proposto loro di restare aprendo una Partita IVA. L’alternativa è spingerli a dimettersi. Da lì in poi inizia un periodo fatto di disoccupazione e centinaia di curriculum inviati, senza tutele. A questi si aggiungono i titolari di Partita IVA che svolgono il ruolo di “falsi dipendenti”, costretti a lavorare otto ore al giorno in ufficio pur non essendo legalmente tenuti a farlo, con il Malus di una crescita del tutto esistente che li tiene in un limbo perenne di insoddisfazione. Questo è un fenomeno diffuso, radicato, passato come fosse normalità, oltre che ad essere totalmente illegale, che solo le nuove generazioni, forse, riusciranno a scardinare. La mia, di generazione, ha mollato da tempo.
Per questi motivi il futuro del design lo vedo sempre più centrato su le collaborazioni. Saranno le realtà agili e indipendenti a potere riportare il design a un nuovo splendore. Saranno capaci di andare avanti senza l’interferenza di figure ambigue e intermedie, spesso totalmente estranee al mondo progettuale.
Oggi più che mai, il design ha bisogno di tornare alle sue radici: cultura, visione, coraggio, sostenibilità.
Non servono strutture mastodontiche, budget milionari, big brand, servono persone che credono nel valore del progetto, che sanno dire di no quando serve, che scelgono di fare meno, ma meglio. Serve riprendere coscienza di cosa sia il design, riprendere l’educare il cliente, cancellare una cultura basata sull’apparire e sul nulla. Un mondo senza social è un sogno utopico ormai, ma è ovvio che il sistema dietro ai social cambierà, perché già è insostenibile e la crisi della tante piattaforme inizia ad essere sempre più palpabile.
Il futuro non appartiene a chi rincorre, ma a chi costruisce con coerenza e cultura, con un occhio alla reale sostenibilità.