Nell’ultimo decennio il lavoro del designer è diventato significativamente più complesso. Oggi a un designer si richiede di possedere una moltitudine di competenze, di saper svolgere ruoli diversi e adattarsi a contesti in continuo cambiamento. Ma la verità è che nessuno può essere eccellente in tutto. Questo ha portato, soprattutto nei paesi economicamente più fragili come l’Italia, a una generale perdita di qualità. Si cercano figure tuttofare, accettando un livello medio mediocre, nella maggior parte dei casi sottopagato.
L’impressione diffusa è che oggi il settore della comunicazione sia infinitamente più complesso rispetto ai decenni ‘60-‘90. In realtà, anche allora le sfide non mancavano. Si operava con strumenti limitati: stampa e radio, poi televisione. Il computer, introdotto negli studi di progettazione a metà anni ’80, è diventato accessibile a tutti in Italia solo a fine anni ’90. Fare grafica richiedeva tempi lunghi e investimenti notevoli: la complessità era tecnica, non strutturale.
La grande differenza è che un tempo il designer era al centro del processo. Una figura distinta dal pubblicitario, con piena autonomia progettuale e un forte peso decisionale. Tutto ruotava attorno a lui. Oggi invece il designer ha perso centralità, è stato deresponsabilizzato. Con l’ascesa del marketing come unico obiettivo, il livello medio del design si è abbassato. Nonostante molti abbiano provato a contrastare questo declino, il sistema ha prevalso. I grandi brand e uno Stato che ha sistematicamente disinvestito nella cultura ne sono i principali responsabili.
Il ruolo del designer è stato ridimensionato fino a diventare quasi esecutivo. Una figura chiamata a eseguire ordini, a replicare estetiche già viste per garantire una coerenza visiva più commerciale, che progettuale. In tanti casi non ha contatti diretti con il cliente. Il dialogo è filtrato da Project Manager, Account, esperti di Marketing e figure di passaggio, spesso più numerose dei designer stessi all’interno delle agenzie italiane. Il risultato? Il designer si ritrova a dover soddisfare gusti personali altrui e ricevere feedback espressi in termini vaghi come “mi piace” o “non mi piace”, sulla base di brief mal scritti e privi delle informazioni fondamentali per un buon progetto. Se a ciò si aggiunge l’assenza di competenze grafiche e terminologiche da parte di chi fa da tramite, le conseguenze non possono essere che pessime.
Non sorprende quindi che molti designer abbiano deciso di intraprendere la propria strada come freelance o fondando piccoli studi indipendenti. Ed è proprio da queste realtà che, spesso, nasce l’innovazione. Sono ambienti dove è possibile sbagliare, sperimentare, crescere e proporre un linguaggio fuori dal coro.
Come la musica, lo sport o la scrittura, anche il design può essere un mezzo capace di migliorare il mondo. Ma per farlo deve essere libero, e nelle mani dei designer.
Un designer deve certamente sapersi muovere in diversi ambiti progettuali, ma non può e non deve essere esperto in tutto. È normale avere una maggiore sensibilità in una o due aree specifiche. Competenze come il copywriting o la conoscenza di CMS come WordPress non dovrebbero MAI essere date per scontate. Sono professioni assestanti, che alcuni possono aver appreso per ragioni personali, ma mai legate alla formazione da designer.
A questo si aggiungono altre discipline che pur essendo parte del sistema design, sono anche essi mestieri autonomi: type design, motion design, illustrazione, per citarne alcuni. Se cerco un designer oggi mi aspetto che sappia costruire un’identità visiva, impaginare un layout editoriale e sviluppare una UI base. Ma non che sia anche illustratore o motion designer. Se mi serve un illustratore, cerco un illustratore. Non si può forzare una figura creativa a fare ciò che non sente, solo perché conviene economicamente.
Allo stesso modo, anche il design per i social meriterebbe un approfondimento a parte. Progettare un’identità è cosa ben diversa dal creare contenuti grafici per Instagram o altri social. La grafica per i social è un design usa e getta, con un ciclo di vita medio di 24-48 ore se non sponsorizzata. È una forma di mercificazione visiva molto più vicina alla pubblicità. Non stupisce che molti designer tra i 28 e i 40 anni si sentano spaesati e a disagio nel lavorare in un ambito così distante dalla loro formazione. Ma di questo parlerò in un altro articolo.
Per concludere, alla luce di queste considerazioni, possiamo affermare con certezza che chi sostiene che fare il designer oggi sia diventato più complesso ha pienamente ragione. Gli studi di progettazione grafica sono sempre meno, mentre aumentano le realtà in cui il ruolo del designer è ridotto a una funzione operativa, spesso priva di visione o che ossa garantire una reale crescita.
È un fenomeno ormai radicato, alimentato da pregiudizi e da una progressiva perdita d’identità da parte di molti studi. Un tempo, il legame tra un progetto e lo studio che lo aveva realizzato era riconoscibile anche senza firma. Oggi, invece, domina un’estetica appiattita, dove si assiste a un continuo ripetersi di formule già viste, figlio della mancanza di investimenti, coraggio e libertà espressiva.
Ai giovani designer consiglio, se ne hanno la possibilità, di guardare oltre i confini: fare esperienze all’estero o, in alternativa, costruire un percorso autonomo, magari a un certo punto, avendo fatto la giusta esperienza, fondando un proprio studio o intraprendendo la strada del freelance. In ogni caso, è importante che acquisiscano consapevolezza: per avere un futuro solido in questo settore, serviranno dedizione, visione e una capacità costante di rinnovarsi, soprattutto con il passare degli anni.