Skip to main content

Come un certo tipo di progettazione sia finita a influenzare negativamente tutti gli altri ambiti del Graphic Design.


Quando il design per App invase totalmente il mondo della grafica, ero solo all’inizio del mio percorso professionale. Mi ero formato come sviluppatore web, ma con una naturale attrazione per la progettazione grafica. In quel momento attraversavo una fase di transizione: studiavo Graphic Design in Accademia e cercavo di tracciare un nuovo cammino professionale.

Pur mantenendo un forte legame con la progettazione web, anche grazie alla mia ambivalenza designer/sviluppatore, il mondo della progettazione grafica di App non mi ha mai veramente conquistato. Ne ho sempre riconosciuto il valore in termini di usabilità e user experience, ma non è mai riuscito a coinvolgermi del tutto.

Il web, con tutti i suoi limiti tecnici di allora (oggi largamente superati), mi offriva una maggiore versatilità creativa. Potevo sperimentare, esprimermi, uscire dai binari, se il contesto me lo permetteva.

Il mio approccio al design delle App è stato quello di osservatore. Da quell’ambiente ho assorbito concetti preziosi sull’esperienza utente, che hanno senz’altro arricchito il mio modo di progettare.

A un certo punto, però, quel modo di fare design ha cominciato a straripare, come un fiume che rompe gli argini. Si è iniziato a pensare che il metodo per progettare interfacce potesse essere applicato a tutto. E lì, secondo me, qualcosa si è rotto.

La ricerca ossessiva della semplificazione ha iniziato a svuotare l’estetica. Con il pretesto dell’accessibilità, della UX, del design “pensato”, si è spesso finiti nel banalizzare anche altri ambiti della grafica.

Nel mondo delle UI, web incluso, sono nate nuove professioni, auto-proclamate, che si sono imposte con arroganza sopra i designer tradizionali. Ruoli, che prima erano parte integrante del lavoro di un grafico, sono diventati compartimenti stagni. Il designer è stato considerato da queste figure alla stregua di un decoratore.

Questa mutazione ha generato un’economia parallela: master, corsi, libri, format preconfezionati. Tutto ruotava attorno alla nuova dottrina:

“Se non fai questo tipo di design, sei fuori mercato”

Un paradosso. Sarebbe come se, negli anni ’60, avessero detto a Bob Noorda di limitarsi a eseguire indicazioni altrui per la segnaletica della metro di Milano, New York e San Paolo, senza poter ragionare sull’esperienza utente. Come se a Massimo Vignelli fosse stato impedito di sistematizzare la comunicazione dei parchi nazionali americani, chiedendogli solo di “abbellire” i sistemi esistenti, senza risolvere il problema dovuto a gli alti costi per una gestione separata della comunicazione di ogni singolo parco.

Mia nonna, sarta e insegnante di sartoria, mi diceva sempre:

“Un sarto non può pensare solo all’estetica di un vestito, senza costruirne anche la struttura. E non può progettare la struttura senza immaginarne la forma finale.”

Questo concetto è diventato un pilastro della mia etica professionale.

Il vero design ha bisogno di cultura, visione, coraggio e carattere. Non è un mestiere open source, accessibile a chiunque solo perché esistono tool drag-and-drop o linee guida preimpostate.

Quando vedete un design troppo ordinario, già visto, in cui la forma viene banalizzata in nome della funzionalità, ricordatevi di quell’inondazione di cui ho parlato prima.

Ovviamente, non tutto deve essere sofisticato esteticamente. Esistono contesti in cui semplicità e rigore sono fondamentali. Ma sono contesti precisi, non una regola universale.

Il branding, ad esempio, si è impoverito proprio a causa di questa visione riduttiva. L’idea che basti un marchio generico, purché accompagnato da una brand identity solida è un errore grave. Continuerò a dirlo all’infinito.

Anche la frammentazione delle competenze nel design mi inquieta: significa dimenticare la storia stessa del design, le sue radici.

Design is One non vuol dire che esista un solo metodo. Significa che un designer dovrebbe saper pensare in modo fluido e trasversale, adattandosi al contesto. Fare una UI e progettare un’identità visiva non sono la stessa cosa, ma richiedono entrambe una mente ampia e interdisciplinare.

Il design non è un insieme di post-it colorati su un vetro, né una foto del designer in posa da finto filosofo. È una disciplina complessa, profonda e chi ci lavora, se lo fa con coscienza, ha il dovere di ricordarlo.

La presentazione di Apple e della sua nuova UI denominata Liquid Glass ha fatto insorgere molti su LinkedIn, la maggior parte dei quali ricopre il ruolo di UX Designer, o altri ruoli (gli ennesimi) nati da poco, che hanno la parola Accessibility buttata lì in mezzo.

Mi ricorda tanto quando Apple introdusse, anni fa, i gradienti, tra lo sgomento generale dei designer abituati ai colori flat. Cosa successe? La UI fu migliorata nel tempo, tutti si adattarono e poi iniziarono a copiare.

Il mondo del Product Design, soprattutto quello della UX Design, presenta molte criticità: il bigottismo, la testardaggine, la pigrizia creativa, l’etichettarsi in un unico ruolo ben preciso, quest’ultimo un grande errore nel 2025.

Certo, non è così per tutti. Conosco product designer versatili e bravissimi che osservo sempre con grande ammirazione, ma in moltissimi casi ci troviamo nella situazione appena esposta, anche per colpa di un indottrinamento generale creato a scopi puramente commerciali.

Dimentichiamo che il designer ha anche il compito di istruire l’utente dinanzi a novità e sperimentazioni, facilitandone il più possibile la comprensione autonoma, si chiama evoluzione e ha anche tanto a che fare con l’innovarsi della tecnologia.

Apple ha ancora il tempo di migliorare alcuni aspetti, soprattutto grazie ai feedback che riceverà da chi testerà la beta, ma questo non cambierà di certo la strada che ha intrapreso. Gli altri designer finiranno per copiarla, come sempre, anche chi oggi grida allo scandalo nei panni di paladino dell’usabilità e dell’accessibilità. La gente si abituerà, perché fa parte della natura umana, e tutti vissero felici e contenti. Qualcuno, però, rimarrà con un crocifisso in mano, pronto per la prossima cosa “sbagliata” da esorcizzare, che potrebbe stravolgere il suo modo lineare (e noioso) di concepire il design.

Amen.